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October 18, 2025

Amsterdam sotto zero

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Era l’aprile del 2001. Ogni half, ogni metà anno, ci ritrovavamo all’HQ per fare il punto su progetti, vendite e strategie. Era un rito ormai consolidato: colleghi sparsi per mezza Europa che converge­vano in una città per una settimana di bilanci, visioni e cene infinite, tra la precisione scandinava e la leggerezza mediterranea.

L’incontro precedente, in Norvegia, si era svolto nelle classiche cabin di legno, in mezzo alla neve. Suggestivo, sì, ma un incubo per chi veniva da climi più miti: Joen, Noël, Christophe e Antonio combattevano più con il freddo che con le slide dei progetti. In Norvegia il cambio era proibitivo, così finivo per comprare io in Italia i Nokia Communicator 9210 per tutti — quei telefoni solidi, d’alluminio, con tastiera completa e schermo a colori. Veri precursori del lavoro mobile.

Quando ci ritrovammo ad Amsterdam, pochi mesi dopo, da Milano partii con il sole. All’arrivo trovai una città imbiancata e sferzata da un vento tagliente. Il nostro ufficio era alla prima fermata da Schiphol, appena fuori città: all’uscita della metro, la mattina, mi accoglieva una marea di biciclette, un fiume silenzioso che scorreva ordinato verso gli uffici, incurante del gelo e della neve sottile. Li ammiravo — giacche scure, guanti, cartelle sulle spalle — una sinfonia di ruote che giravano in perfetta armonia.
Era un’altra cultura: concreta, disciplinata, eppure lieve.

Amsterdam sembrava galleggiare tra cielo e acqua, con i canali che riflettevano le luci dei tram e le finestre dei caffè. Il freddo non bastava a fermare la città.
La sera, dopo le riunioni, ci spostavamo in battello da un ristorante all’altro. E, come se il destino volesse mettere alla prova il nostro spirito latino, le finestre erano aperte — “per ammirare meglio il panorama”, dissero. Noi, infreddoliti, cercavamo solo di scaldarci. Io, dopo pochi giorni, rimasi completamente senza voce. Ironico per chi di comunicazione viveva.

In quei mesi firmammo i nostri primi contratti importanti: IKEA, una grande catena di dispositivi commerciali, e Wanadoo in Francia, uno dei pionieri dell’Internet europeo.
Chi forniva connessioni aveva un nuovo problema: dove mettere milioni di caselle email. Noi offrivamo la soluzione, in white label: infrastrutture pronte, scalabili, rivendute con il marchio del provider.
Nel Nord Europa, però, la posta elettronica non bastava. Lì contavano ancora Telex e X.400, protocolli rigidi ma considerati “ufficiali”. Li gestivamo con gateway dedicati, residui di un mondo che stava scomparendo ma che ancora dava autorevolezza alle comunicazioni aziendali.

Fu un periodo sospeso, come la musica di quegli anni:
nelle radio passavano Can’t Get You Out of My Head di Kylie Minogue, Drops of Jupiter dei Train, Elevation degli U2, Clocks dei Coldplay, Digital Love dei Daft Punk e Sing dei Travis. Brani che univano elettronica e malinconia, come il tempo che stavamo vivendo: a cavallo tra l’analogico e il digitale, tra la voce e il silenzio.

I Paesi Bassi avevano un modo tutto loro di interpretare la modernità.
Un paese piatto, ordinato, attraversato da canali, dove ogni cosa sembrava studiata per convivere con l’acqua. Una nazione tollerante e pragmatica, capace di accogliere innovazione senza rinnegare tradizione. E noi, in quell’ufficio vicino a Schiphol, sentivamo di far parte dello stesso equilibrio sottile: tra il vecchio mondo delle comunicazioni istituzionali e quello nuovo che stava nascendo.

E proprio lì, mentre il vento gelido entrava dalle finestre del battello e le biciclette scorrevano silenziose ogni mattina, diventava chiaro che qualcosa stava cambiando per sempre.
La telefonia stava smettendo di essere solo voce: con l’aumentare della velocità — GPRS, EDGE, poi 3G — il telefono diventava il contenitore di applicazioni, dati, musica, immagini e messaggi.
Era l’alba di una nuova era.
E forse, quel mio silenzio ad Amsterdam, fu il preludio al frastuono digitale che stava per arrivare.

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