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October 15, 2025

Dal cavo al cielo – L’anno di Iridium

Nel 1997 il mondo delle telecomunicazioni viveva una trasformazione silenziosa ma profonda.
Mentre i consorzi che per decenni avevano posato cavi sotto l’Atlantico e il Pacifico cominciavano ad affacciarsi alle comunicazioni mobili, l’Europa correva sul tracciato del GSM, nato nel 1991 e ormai pronto a conquistare il mondo.
Negli Stati Uniti, invece, la mappa era più frammentata: TDMA, CDMA, AMPS — sigle che convivevano in una giungla di incompatibilità.
Proprio da quella confusione prese forma un sogno tanto ambizioso quanto irrealistico: Iridium, la rete satellitare globale di Motorola.

Una costellazione di 66 satelliti in orbita bassa, interconnessi tra loro, avrebbe permesso a chiunque di telefonare da qualsiasi punto della Terra — dai ghiacci del Polo ai deserti del Sahara.
Il cervello del sistema era a Tempe, Arizona, e una delle prime basi operative europee si trovava in Italia, nel centro spaziale del Fucino, gestito da Telespazio.

Fu proprio lì che entrai in gioco come Project Maager

In quegli anni, Sun Microsystems vendeva dappertutto: alle banche, alle società finanziarie, ai centri di ricerca e, naturalmente, alle telecomunicazioni.
Nel gruppo dei Professional Services, dove lavoravo, avevamo tra i clienti principali Telecom Italia Mobile, parte del consorzio Iridium.
Il progetto era un po’ italiano, per la partecipazione di Telecom Italia, e un po’ americano, per la presenza di AT&T e di Motorola.
Quella miscela di culture, procedure e orari cominciò a farmi capire davvero cosa significasse il termine “double booking”: riunioni incrociate su due fusi orari, team che lavoravano in parallelo, call notturne tra Roma, Mesa e Tempe.

Il viaggio iniziò con una tappa obbligata alla sede centrale di Sun a Mountain View, nel cuore della Silicon Valley.
Lì, tra i corridoi dove si respirava innovazione e caffeina, si discutevano i dettagli della fornitura: non solo i sistemi Sun, ma l’intero rack di comunicazione destinato alle stazioni base — un insieme di apparati che dovevano rispettare standard rigorosissimi: Bellcore 4, isolamento elettrostatico, prove di vibrazione e di resistenza sismica.

Poi il volo verso Phoenix, sorvolando un paesaggio che sembrava un mare di pietra rossa e canyon infiniti.
Mi ritrovai di nuovo in un deserto, ma non quello del Nevada come ai tempi del Comdex: questa volta era il deserto di Mesa, cittadina vicina a Phoenix, dove sorgeva la Motorola Satellite Communications Division.

Lì, tra i capannoni lucidi di metallo, si passavano le giornate a fare prove di chiamata e trasferimenti di file tra Mesa e il Fucino, attraverso i pochi satelliti già in orbita.
Ogni connessione riuscita era una piccola vittoria: un “ping” che arrivava dall’altra parte del mondo dopo minuti di silenzio, come un battito di cuore distante.
Nei log delle console, si leggevano le tracce dei satelliti che si passavano la chiamata l’un l’altro, mentre fuori il sole calava lento dietro le montagne Superstition.

Intorno a noi, tutto sembrava sospeso tra due epoche: il fruscio analogico del passato e il bit digitale del futuro.
Era l’anno di “Around the World” dei Daft Punk e di “Bitter Sweet Symphony” dei Verve — colonne sonore perfette per un mondo che si scopriva connesso, ma anche fragile.
Ogni sera, tornando in hotel, accendevo la TV su MTV America e pensavo a quanto il pianeta sembrasse improvvisamente più piccolo, eppure più complesso.

Nei fine settimana con Giorgio Lo Verde, project manager di Telespazio, cercavamo di staccare per qualche ora.
Salivamo in macchina e puntavamo verso nord, fino a Flagstaff, a circa 300 miglia andata e ritorno da Mesa, per qualche veloce hiking tra i pini e la roccia rossa.
Era un modo per respirare, per ricordarci che sotto quel cielo terso, oltre le orbite dei satelliti e i cablaggi dei rack, c’era ancora la Terra — immensa, silenziosa e reale.

C’era qualcosa di epico in quell’impresa: la sensazione di lavorare non solo a un progetto tecnologico, ma a una nuova infrastruttura planetaria, un ponte invisibile tra terra e cielo.
Eppure, tra le prove e i test, cominciava già a farsi strada un sospetto: che i sogni che toccano le stelle, spesso, bruciano più in fretta.

Pochi anni dopo, Iridium dichiarò bancarotta. I telefoni erano troppo grandi, troppo costosi, e le reti GSM avevano ormai conquistato il mondo.
Le parabole di Mesa si spensero una dopo l’altra, e molti dei satelliti, lasciati a orbitare in silenzio, divennero simbolo di un sogno in anticipo sui tempi.
Eppure quel progetto non morì del tutto: venne rilevato dal governo americano (lo stesso DoD di Arrpanet) e, negli anni successivi, riprese vita come infrastruttura di sicurezza per aviazione, marina e operazioni di emergenza.

A distanza di venticinque anni, guardando le costellazioni di Starlink che oggi solcano il cielo notturno, mi torna alla mente quel tempo.

Elon Musk non ha inventato un nuovo sogno: ha semplicemente riacceso quello di Iridium, rendendolo finalmente possibile grazie a tecnologie più leggere, lanci riutilizzabili e connessioni dati continue.
I satelliti che vediamo attraversare le notti d’estate sono, in fondo, i discendenti diretti di quel progetto nato nel deserto dell’Arizona, tra rack Sun, parabole Telespazio e speranze sospese tra due continenti.

E forse, senza saperlo, noi che testavamo le prime chiamate tra Mesa e il Fucino abbiamo tracciato — con un segnale imperfetto e intermittente — la rotta del futuro.

Il sistema Iridium fu progettato come una costellazione di 66 satelliti operativi (più 6 di riserva) disposti su 6 piani orbitali polari inclinati di 86,4° rispetto all’equatore.
Ogni piano conteneva 11 satelliti equidistanti, a una quota media di 780 km (LEO – Low Earth Orbit).

I satelliti percorrevano un’orbita completa intorno alla Terra in circa 100 minuti, attraversando i poli a ogni passaggio.
Questa configurazione garantiva copertura globale continua, inclusi i poli, cosa impossibile per i satelliti geostazionari dell’epoca.

Una delle grandi innovazioni di Iridium fu il collegamento inter-satellite link (ISL): ogni satellite comunicava direttamente con i quattro più vicini — due nello stesso piano orbitale e due nei piani adiacenti — creando una rete mesh orbitale.
In pratica, una chiamata poteva “saltare” da satellite a satellite fino a raggiungere un gateway terrestre, dove il traffico veniva instradato verso la rete telefonica tradizionale (PSTN o GSM).

Iridium costruì circa 12 gateway principali nel mondo.
Le più importanti erano:

  • Tempe/Mesa (Arizona, USA) – Network Operations Center (NOC), controllo globale.
  • Fucino (Italia) – gateway europeo, gestito da Telespazio.
  • Bangkok (Thailandia)gateway asiatico, realizzato in collaborazione con TelecomAsia (poi True Corporation).
  • Beijing (Cina) – per l’area nord-est asiatica, in partnership con China Spacecom.
  • Hawaii – per il Pacifico e la connessione con il NOC.
  • Canada, Australia, Africa, America Latina – per il bilanciamento regionale.

Quello di Bangkok fu considerato uno dei più complessi: doveva garantire continuità su un’area vastissima, con interferenze climatiche e orografiche notevoli, e fu operativo proprio tra il 1998 e il 1999, poco prima del collasso del progetto.

Differenze tecniche tra Iridium e Starlink

1. Iridium (Motorola, 1997)

  • Orbita: LEO, 780 km, polare (copertura globale).
  • Satelliti: 66 operativi, 6 di riserva.
  • Link: voce e dati a bassa velocità (2,4 kbps inizialmente).
  • Collegamenti inter-satellite: sì (Ka-band).
  • Terminali: telefoni satellitari dedicati (grandi e costosi).
  • Scopo: telefonia vocale globale, non Internet.
  • Latenza media: ~50–80 ms tra satelliti, ma 1–2 secondi end-to-end.

3. Starlink (SpaceX, 2019–oggi)

  • Orbita: LEO, 550 km di quota media, inclinazioni multiple (53°, 70°, 97°).
  • Satelliti: oltre 6.000 operativi, previsti più di 12.000.
  • Link: banda Ku/Ka, e più recentemente laser inter-satellite.
  • Velocità: 100–250 Mbps per utente, latenza 25–40 ms.
  • Terminali: antenne “Dishy” autoinstallanti con phased array.
  • Scopo: Internet broadband globale.
  • Architettura: ibrida — mesh orbitale + gateway terrestri + software-defined networking.

Dall’eredità di Iridium a Musk

In sostanza, Starlink ha realizzato ciò che Iridium aveva solo immaginato:
una rete orbitale a bassa quota, densa, dinamica e interconnessa.
La differenza è tutta nella miniaturizzazione, nei costi di lancio ridotti grazie ai Falcon 9 riutilizzabili, e nella gestione software-defined delle rotte di traffico.

Iridium doveva combattere con limiti fisici e economici enormi — ogni satellite costava centinaia di milioni di dollari, ogni lancio era unico e irripetibile.
Starlink invece lancia 60 satelliti per volta, a costi decimali, e li aggiorna via software.
Microsoft, dal canto suo, non lancia più satelliti ma usa le reti esistenti come estensione del proprio cloud, trasformando il cielo in un “edge computing layer”.

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