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November 1, 2025

Il sapere che si restituisce

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Quando il trambusto del Mobile World Congress si spense, rimase un silenzio nuovo.
Non era vuoto, era pieno di domande.
Per anni avevo corso dietro all’innovazione – protocolli, standard, modelli di business, presentazioni, partnership.
Ma a un certo punto mi accorsi che ciò che stava cambiando non era solo la tecnologia: ero io.

A Londra, i giorni successivi all’evento erano ancora immersi nel ritmo della città – la carrot cake delle otto allo Starbuck, le e-mail che scorrevano sullo schermo, il rumore della pioggia sui vetri.
Ma qualcosa era diverso.
Dopo aver visto migliaia di persone usare il telefono come chiave, carta e portafoglio, mi accorsi che il mio ruolo stava cambiando: non bastava più costruire, bisognava spiegare.
Raccontare quel mondo in trasformazione a chi sarebbe venuto dopo.

Fu così che iniziai a ricevere i primi inviti dalle università.
Prima in Inghilterra, poi dagli States, dalla Scandinavia fino ad arrivre in Italia.
Aule, sale conferenze, master in economia digitale e innovazione.
Portavo con me grafici, case study, foto dai congressi, ma soprattutto storie: di mercati che si incontravano, di errori, di intuizioni, di persone che avevano creduto nel cambiamento prima ancora di poterlo misurare.

Raccontavo di come le telecomunicazioni e la finanza si fossero fuse, di come la GSMA e i grandi player globali avessero creato le basi per un’economia connessa.
Spiegavo che dietro ogni “tap” c’era una catena di fiducia: issuer, acquirer, merchant, consumer — e milioni di righe di codice.
Gli studenti ascoltavano, prendevano appunti, ma quello che cercavo di trasmettere era altro:
che l’innovazione non nasce da un algoritmo, ma dalla capacità di connettere mondi diversi.

Nelle università italiane, da Milano a Bologna, trovavo curiosità e fame di futuro.
Molti ragazzi avevano vissuto l’era del Nokia e dell’SMS, ma non immaginavano quanto profondo fosse il percorso che aveva portato ai pagamenti digitali.
Li invitavo a guardare dietro lo schermo, a capire la cultura del dato, della fiducia, della rete.
Non era solo tecnologia: era evoluzione sociale.

A Londra e Cambridge, le discussioni erano più teoriche, più sistemiche.
Si parlava di modelli di interoperabilità, di business ecosystems, di architetture di valore.
Ma anche lì, come in Italia, ciò che contava era la storia umana: la capacità di far dialogare industrie, linguaggi e mentalità.
E in quelle aule, tra studenti di ogni parte del mondo, sentivo che il mio compito era cambiato.
Non ero più lì per imparare: ero lì per restituire.

Era un periodo di ripensamento, di rallentamento consapevole.
Non un abbandono, ma un cambio di passo.
Dopo anni di voli, meeting e fiere, cominciai a dedicare più tempo alla riflessione, alla scrittura, alla divulgazione.
Andavo in università con la stessa curiosità di un tempo, ma con un nuovo sguardo:
non più quello dell’esploratore che scopre, ma del viaggiatore che racconta.

Spesso, all’inizio dei miei visiting, mostravo una foto del Bosforo o di South Bank, e dicevo:

“L’innovazione è come un ponte.
Non importa da dove parti, ma chi riesci a collegare lungo la strada.”

Ed era questo, in fondo, il senso di tutto: connettere persone e idee.
Là dove prima c’era solo tecnologia, ora c’erano storie da tramandare.

Fu un periodo intenso, ma anche più quieto.
Le giornate scorrevano tra un volo low-cost e una lezione serale, tra i caffè universitari e le email di vecchi colleghi che chiedevano aggiornamenti sui progetti GSMA.
Ma io sapevo che qualcosa era cambiato definitivamente:
era il momento di trasmettere.

E nel farlo, scoprivo che ogni volta che spiegavo il passato, capivo un po’ di più del futuro.

Con il tempo, quella voglia di raccontare divenne qualcosa di più profondo.
Non era più soltanto salire in cattedra per spiegare una tecnologia o un modello, ma condividere un percorso, trasmettere ciò che avevo visto e imparato negli anni in cui la trasformazione digitale stava ridisegnando il mondo.
Era come se dopo aver vissuto tante innovazioni, fosse arrivato il momento di fare ordine, di restituire sapere in modo sistematico, non più episodico.

Fu allora che iniziarono ad arrivare inviti diversi.
Non solo lezioni o conferenze, ma partecipazioni a comitati scientificicollaborazioni con università e istituti di ricercamembri di commissioni di esame.
Era un riconoscimento, ma anche una responsabilità.
Nel silenzio delle aule universitarie, tra tesi di laurea e discussioni su nuovi paradigmi, si respirava un’aria diversa da quella dei congressi e dei board aziendali: più lenta, più profonda, più umana.

Ricordo i corridoi delle università italiane – Bocconi, Alma Mater, Poli – e le sale luminose di campus inglesi come UCL o l’Imperial College.
C’erano lavagne piene di grafici, studenti che parlavano di machine learning e digital finance, e quell’energia tipica dei luoghi dove il futuro non si compra, si costruisce.
Partecipare come membro di commissioni di laurea o di dottorato mi restituiva una sensazione di equilibrio:
vedere nei ragazzi la stessa curiosità che avevo avuto io a Pisa e nei laboratori Unix, molti anni prima.

Spesso mi sorprendevo a pensare che la tecnologia, in fondo, non era mai stata il vero protagonista.
Lo erano le persone.
Le loro domande, le loro intuizioni, le loro paure.
Ogni progetto, ogni ricerca era un piccolo esperimento di futuro: un’app che voleva rendere più umana una procedura, un algoritmo per migliorare la sostenibilità, un sistema per rendere più accessibili i servizi pubblici.
Lì capivo che la conoscenza si completa solo quando viene condivisa.

Essere invitato nei comitati scientifici di conferenze e programmi di ricerca fu un ulteriore passo in quella direzione.
Non era solo un riconoscimento accademico, ma un modo per contribuire alla selezione delle idee, per aiutare a dare forma al dibattito scientifico, per sostenere progetti che potessero davvero avere un impatto.
Collaborare con altre menti — docenti, ricercatori, esperti internazionali — significava essere parte di una rete di pensiero, una rete che cercava di dare senso all’accelerazione del mondo.

In quelle riunioni, tra bozze di paper e presentazioni di dottorandi, portavo sempre con me un approccio pragmatico, figlio dei miei anni nel settore industriale:
l’idea che la teoria deve poter respirare la realtà, e che ogni formula o protocollo deve servire alle persone, non il contrario.
Era una contaminazione reciproca: la cultura accademica dava rigore, la mia esperienza portava contatto con la vita vera dell’innovazione.

Col tempo, anche il linguaggio cambiò.
Non più solo “tecnologia”, ma “ecosistemi”; non più “processi”, ma “cultura digitale”.
Nelle aule e nei comitati scientifici si parlava di intelligenza artificialeetica dei datitrasformazione sostenibile — e mi trovavo spesso a fare da ponte tra il linguaggio della ricerca e quello dell’impresa, tra il pensiero e l’azione.

Era un periodo di equilibrio, un tempo di maturità professionale e personale.
Dopo anni di movimento, viaggi e congressi, trovavo piacere nella lentezza delle domande, nella profondità dei dialoghi, nella possibilità di accompagnare altri lungo il loro percorso.

A volte, uscendo da un’aula universitaria al tramonto, con i corridoi ormai silenziosi e i monitor ancora accesi, mi tornava in mente la stessa frase che ripetevo ai miei studenti:

“Le tecnologie passano, ma le connessioni restano.”

Forse, in fondo, era sempre stato questo il senso del viaggio:
collegare epoche, persone, esperienze – e lasciare che la conoscenza continui a muoversi anche senza di noi.

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